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I bambini inascoltati e picchiati

di Italo Ghirigato

Pubblicato su Alto Adige del 30.03.2019

Ancora una volta bambini piccoli, piccolissimi, malmenati con schiaffi, calci, strattoni, e con parole, parole offensive, umilianti, cattive. È mai possibile? In una scuola materna pubblica o in enti legalmente riconosciuti? Schegge impazzite o crepe rivelatrici di qualcosa che non funziona a livello di sistema? Perché la frequenza con cui la cronaca porta alla luce questi episodi è tale da far pensare alla seconda ipotesi. Alla responsabilità di chi ha un ruolo dirigente, innanzi tutto. E poi alle forme di assunzione del personale e infine alla loro formazione.

Nel caso di Cernobbio veniamo informati che a prendere l’iniziativa di verificare la fondatezza dei sospetti sia stata la direzione interna dell’istituto. Bene. Ma succede raramente. Di solito, come nei casi dei “furbi del cartellino” a denunciare i fatti sono altri colleghi o persone esterne ai luoghi di lavoro. Possibile che chi amministra il personale non si accorga di nulla? No, non è possibile. Anche un burocrate ha orecchie per sentire le urla o i pianti provenire dalle aule e occhi per guardare in faccia le maestre o i bambini. Quindi il problema è nella responsabilità e nella competenza di chi ha un ruolo apicale in queste sedi. La responsabilità rimanda all’etica, al senso di onestà, ai valori educativi alla base di quelle istituzioni e al coraggio di metterli in pratica. La competenza riguarda invece la capacità di gestire il personale e le relazioni interne. Ma poiché i concorsi per quei posti prevedono raramente una verifica delle competenze relazionali e comunicative, c’è da aspettarsi che non siano preparati a intervenire e che quindi tendano a non farsi carico di gestire situazioni difficili. Può un pompiere non addestrato avventurarsi nel fuoco? Anche nell’episodio di Cernobbio c’è da chiedersi se il ricorso ai carabinieri sia un’azione coraggiosa o non sia piuttosto un atto di rinuncia a governare direttamente la situazione interna, richiamando, correggendo o punendo con gli opportuni mezzi normativi il comportamento scorretto del personale. Quando si prenderà atto da parte delle amministrazioni pubbliche che la selezione della dirigenza va fatta verificando sia le competenze tecnico-professionali, che quelle relazionali? E che in ogni caso a chi è già assunto va fatta una formazione adeguata e aggiornata in tal senso? Che è in gioco l’esercizio effettivo di una leadership con le qualità comunicative richieste oggi rispetto al personale di cui è responsabile? Le organizzazioni stanno in piedi in base agli statuti interni che ne regolano il funzionamento, ma soprattutto in base a ciò che succede tra le persone. E queste hanno la loro individualità e il loro modo di relazionarsi agli altri, come pure dei valori a cui fare riferimento. Le leadership hanno il compito di garantire una buona combinazione tra i comportamenti dei singoli e le esigenze dell’insieme dell’organizzazione. Un compito di vigilanza attiva, complesso, ma indispensabile. Che non si attua senza la necessaria preparazione. Cioè senza le competenze che servono per convocare e guidare periodiche riunioni di verifica, per motivare il personale rispetto agli obiettivi dell’organizzazione e per richiamarlo nei comportamenti inadeguati, per mediare e risolvere gli inevitabili conflitti che insorgono in ogni ambiente di lavoro.

Che dire infine dell’idoneità dello stesso personale ad esercitare le proprie mansioni? La cronaca ci dice che la maestra che picchiava i bambini aveva 58 anni. Difficile credere a una donna andata improvvisamente fuori di testa in un periodo della sua vita. Più naturale pensare ad una biografia fatta più di durezze che di tenerezze verso i bambini. E anche se fosse “scoppiata”, come può succedere in un caso di burn out, com’e avvenuto che nessuno se ne accorgesse e non intervenisse?

 

Bullismo: se lo conosci lo eviti

di Italo Ghirigato

Pubblicato su Alto Adige del 21.02.2019

Malattia guaribile o difetto genetico non modificabile? Il bullismo è un tratto di personalità giovanile che si può ricondurre a “normalità” o va soltanto isolato e neutralizzato perché irrecuperabile? Generalmente gli specialisti in materia propendono per la prima tesi, ma la sensazione è che la maggior parte dei genitori e purtroppo anche degli insegnanti la pensino in modo diverso, sia intervenendo, sia astenendosi dal farlo. Ne è una prova l’episodio accaduto qualche giorno fa in un istituto magistrale (sic!) di San Giovanni Rotondo, dove a prendere l’iniziativa contro un’azione di bullismo non sono stati gli insegnanti, ma gli studenti. Un film francese di qualche anno fa, La classe, premiato per il suo realismo, mostra la vivacità e la turbolenza degli studenti nelle aule odierne e la risposta reattiva dell’insegnante, aggressiva, offensiva e dissociata dal suo ruolo educativo. Lui crede nel suo lavoro. Ma gli mancano lo stato emotivo, le parole, i gesti adeguati a governare la situazione: competenze da acquisire, e non aspetti personali che si hanno o non si hanno. Così proprio la sua passione gli si ritorce contro. Vedendosi impedito ad esprimerla, si altera e agisce d’impulso. Rivelando la vera piaga nel sistema formativo dei docenti. Per decenni sono diventati tali superando esami di stato sui contenuti delle loro materie, ma non sul modo di insegnare (la didattica) e tantomeno sul modo di comunicare con i soggetti in apprendimento. Poi è intervenuto l’obbligo della formazione pedagogica, ma non di quella emotivo-relazionale. La dice lunga il fatto che la RAI oggi si permetta di mostrare in una sua fiction ambientata ai nostri giorni (La compagnia del cigno) come normali, se non addirittura esemplari, figure di insegnanti autoritari, offensivi e lesivi dell’autostima dei propri studenti.

Mancando o scarseggiando tale formazione, i docenti non sono attrezzati né a convivere con il forte stress presente tra le mura scolastiche, né a trasmettere modelli relazionali improntati al rispetto dell’altro, all’empatia, all’intelligenza emotiva, all’equilibrio tra impulsi individuali ed esigenze cooperative. Tutto è affidato al “carattere” o alla preparazione del singolo docente. Ma non a caso il 50% dei lavoratori che vivono il burn out, una forma acuta di stress che fa sentire una persona “scoppiata”, “svuotata”, appartiene agli insegnanti. E a Parigi c’è un ospedale psichiatrico solo per loro.

Il bullo a scuola, per lo più maschio, ma anche femmina, è un adolescente con problemi relazionali con sé stesso e con gli altri. Si distingue soprattutto per l’uso della violenza, fisica o psicologica, o di ambedue, nei confronti dei suoi compagni di scuola. Essendo un adolescente, è in una fase di apprendimento della vita, in cui ha già o è alla ricerca di modelli umani di riferimento, reali o di fantasia, per imitarne i comportamenti. Com’è noto, è anche una fase in cui il suo cervello non ha ancora completato la maturazione di tutte le sue parti e quindi non dispone di tutte le risorse neurologiche per compiere in modo consapevole ed efficace le sue azioni. Non c’è dubbio che, nel momento in cui accade il fatto, il bullo vada isolato e punito. Ma la punizione, come sappiamo, se non è accompagnata da un’azione educativa sia di recupero del soggetto interessato, sia di formazione per chi gli è intorno, non garantisce che le cose non si ripetano. Anzi, l’istinto di rivalsa fa parte proprio di quelle personalità immature. L’educazione alla relazione, quindi, soprattutto preventiva, ma anche a posteriori, è la soluzione migliore, la vera chiave per affrontare questo fenomeno sempre più diffuso e facilitato dalle nuove tecnologie informatiche. Ma se i genitori, gli studenti e soprattutto gli insegnanti non hanno alle spalle una preparazione in questo campo, come si può pensare che siano in grado di affrontare una relazione difficile come quella con un bullo?

 

Il linguaggio violento e i suoi effetti

di Italo Ghirigato

Pubblicato su Alto Adige del 08.02.2018

«La moralità dell’uomo la si riconosce dal suo atteggiamento verso la parola» scriveva Lev Tolstoj. «Al di là di ogni nostra intenzione, siamo sempre responsabili delle parole che diciamo, di quelle che scriviamo, di quelle che non diciamo e che invece dovremmo dire» rincara Eugenio Borgna, grande maestro della psichiatria italiana. Non facciamo speculazioni, si invoca ancora una volta dal mondo politico rispetto al raid razzista di Macerata. Ma ancora una volta l’appello cade nel vuoto, o quasi. «Votiamo contro chi ha fatto venire in Italia gli immigrati» dichiara un politico subito dopo. «La responsabilità morale è di chi ha riempito l’Italia di clandestini» aggiunge un altro. E via di questo passo. Nessuno s’interroga sulla responsabilità morale del proprio linguaggio. Che nella politica del nostro paese ha raggiunto livelli di degenerazione impressionanti. Per la sua rozzezza e volgarità. Per la sua aggressività e velenosità nel momento in cui si confronta con gli avversari. Per la vacuità e fumosità di cui è intriso nella formulazione di proposte e programmi.

Le parole sono aria fritta quando ad esse non fanno seguito i fatti, ma non quando arrivano e si insediano nella nostra mente. Lì succede sempre qualcosa, come ci insegna la neuropsicologia. «Verificate i vostri vocabolari pubblico e privato» ci dice Toni Buzan, un’autorità mondiale nel campo delle attività cerebrali e nelle capacità di apprendimento. «Se uno o entrambi sono pieni di negatività, ciò indebolisce il sistema immunitario, aumenta la probabilità di fallimento, demotiva voi stessi e chi vi circonda».

«Mattarella è complice di scafisti, sfruttatori e schiavisti» «Il premier come Pinochet» «Contro di me solo un’accozzaglia» «Sei complice della camorra» «Ti bruceremo vivo» «Sei un usuraio e un imbroglione». Come si può pensare che una comunicazione così invasiva per le sensibilità emotive delle persone non produca effetti nel loro comportamento che vadano ben oltre la scelta di voto? Come si può pensare che uno stato permanente di campagna elettorale condotta con parole umanamente intollerabili non rimettano in discussione le regole di una convivenza civile che generazioni prima di noi hanno concepito e messo in atto con tanta fatica e sacrificio? Come si può pensare che l’inimicizia, il rancore, l’intolleranza assunti come linguaggio corrente non vengano assunti come metodo nel relazionarsi agli altri da parte di una popolazione che ne subisce il bombardamento quotidiano? Chi semina vento, raccoglie tempesta, recita un detto popolare d’ispirazione biblica. Che nel nostro caso ci ricorda che il veleno del linguaggio politico intossica tutti, anche chi lo usa e l’elettorato stesso a cui si rivolgono. Perché quando le parole violente diventano un metodo, verranno usate anche all’interno di quel mondo che le ha generate. Non sono parole passeggere, utili solo nel momento per screditare gli altri e valorizzare sé stessi. Inconsapevolmente vanno a comporre un dizionario mentale di cui le persone si servono per confrontarsi col mondo, chiunque sia, amico o nemico. Nessuna formazione politica può quindi illudersi che le caratteristiche del proprio linguaggio, soprattutto quelle violente, ma anche quelle che rispecchiano più i sommovimenti della pancia che la vivacità dei neuroni, prima o poi non si ritorcano anche contro se stesse e il “popolo” cui fanno riferimento. «Ovunque parole cariche d’odio saranno brandite come un’ascia contro determinati gruppi di esseri umani, ben presto comparirà una vera ascia» (Amos Oz).

Politici senza vivaio e senza formazione

di Italo Ghirigato

Pubblicato su Alto Adige del 29.12.2017

«In diecimila per il posto in Parlamento» titolava domenica il Corriere della sera parlando dei candidati alle prossime elezioni del Movimento 5 Stelle. Già, a chi si può negare oggi un posto in Parlamento? «Ogni cuoca dovrebbe imparare a governare lo Stato» è la famosa frase attribuita a Lenin durante la rivoluzione russa del 1917, scoprendo poi che non era sua e che lui aveva sostenuto piuttosto che operai e soldati avessero dovuto iniziare fin da subito un tirocinio formativo nell’amministrazione dello Stato. Un’idea buona, ma, passato un secolo, è ritornata l’idea della cuoca, preceduta però, a onor di cronaca, da veline e massaggiatrici. Basta essere eletti dal popolo. È la democrazia, si dice, ma sarebbe meglio parlare di una versione della democrazia, una versione impoverita e pericolosa, privata di una sua parte costitutiva: i corpi intermedi, il mondo dell’associazionismo, i luoghi in cui i futuri politici facevano esperienza e si formavano. I corpi intermedi non sono scomparsi. I sindacati, le tante associazioni cattoliche, i circoli culturali e altre organizzazioni danno ancora vita a un arcipelago diffuso e variegato. Ma la classe politica di oggi non li considera come palestre di formazione, propensa com’è, piuttosto, a viverle come un ostacolo nel rapporto tra il leader e il popolo. E anche le associazioni non sono più quelle di una volta. L’assistenzialismo, la rincorsa alla quotidianità, l’intrattenimento ludico rubano sempre più spazio alle azioni di cambiamento sociale, all’orientamento ai valori, all’apprendimento di competenze comunicative ed organizzative. Nei corpi intermedi c’erano anche le scuole di formazione. E anche nei partiti. Ma anche quelle si sono rarefatte e nei partiti sono pressoché scomparse. La conseguenza è sotto gli occhi di tutti. Chi arriva a ricoprire un ruolo istituzionale spesso non ha mai seguito una lezione di educazione civica, ignora le più elementari nozioni di economia, non ha mai sentito parlare di divisione dei poteri, è privo di memoria storica. Prima bastava che fosse almeno un personaggio noto, ora è sufficiente che sia pronto a diventarlo. Magari in rete.

L’imbarazzo del PD locale a individuare un nuovo candidato alle prossime elezioni politiche dopo la rinuncia di Francesco Palermo, è emblematico di questa situazione di scarsità e di povertà nella formazione dei politici. Cosa preoccupante se si pensa che occupa da un ventennio un ruolo di primo piano nel governo provinciale, proprio nel periodo in cui è nata e cresciuta l’università a Bolzano e con incarichi proprio in tema di cultura. Il partito con più storia alle spalle di altri e che quindi dovrebbe disporre di un “vivaio” di persone che non spuntano come i funghi dalla sera alla mattina.

Nella società della conoscenza e dell’apprendimento per tutta la vita la classe politica non predispone un’azione sistematica per la preparazione dei propri quadri. In linea del resto con lo scarso investimento in Italia sulla scuola, sulla ricerca e sulla formazione in generale. In tempi in cui un giornalista, un docente, un medico e altre professioni devono obbligatoriamente esibire dei crediti formativi per continuare ad esercitare, i politici, coloro che hanno la responsabilità di governo sull’insieme della società, ne sono esenti. La cuoca oggi non è più quella (supposta) di Lenin. Anche lei deve fare un percorso professionale e acquisire un titolo. Se però si mette in politica non occorrono trafile formative, va bene così. Basta che sia eletta dal popolo.

Catalogna: un’occasione perduta per tutti?

di Italo Ghirigato

Pubblicato su Alto Adige del 05.10.2017

La globalizzazione è un mercato aperto. Non solo per le merci e le persone, ma anche per le idee. Ma sia lo Stato spagnolo che la Catalogna al mercato aperto delle idee hanno preferito i vicoli ciechi dell’autosufficienza. Perché in materia di autonomie territoriali l’Europa è ricca di storia e di realizzazioni. “Tutto è già stato detto, ma siccome nessuno ascolta, bisogna sempre ricominciare tutto da capo” (Andrè Gide). Dalla storia sofferta del nostro Sudtirolo o dell’Irlanda del Nord, per non parlare della tragedia balcanica, lo Stato spagnolo e la Regione catalana avrebbero dovuto imparare ad escludere violente prove di forza. Dalle soluzioni raggiunte anche in altre parti d’Europa lo Stato spagnolo avrebbe potuto considerare seriamente e con rispetto le aspirazioni autonomistiche, mentre il governo catalano avrebbe potuto elaborare proposte più concilianti con la necessità di tenuta unitaria dello Stato spagnolo. Ma il passato è una terra straniera. Davvero incredibile assistere ad uno scontro così violento tra le due parti in causa all’interno di uno stato libero e democratico, e all’assenza di uno sforzo ricerca, di scambio, di elaborazione con popolazioni che hanno già vissuto e risolto situazioni simili. La “mente tribale” ed emotiva, come la chiama lo psicologo statunitense Jonathan Haidt, prevale su quella più ragionante. Quest’ultima è il portantino, mentre l’altra è l’elefante.

La latitanza, però, non riguarda solo gli attori di questa triste vicenda in terra iberica, ma anche l’Unione Europea. Desolante la sua posizione ufficiale che considera l’evento come una mera questione interna alla Spagna, facendo passare come un atto rispettoso la sua assenza propositiva e quindi la sua leadership politico-istituzionale. Ignorando che la vicenda ha un’importanza che travalica i suoi confini nazionali. Perché esprime un desiderio di autonomia territoriale che è diffuso e che corre in parallelo con la globalizzazione e anche con la formazione di governi sovranazionali come quello europeo. E quindi vicende come queste si riproporranno.

Gli esseri umani hanno vissuto in piccole comunità per decine di migliaia di anni, sentendosi così più padroni del proprio habitat e più protetti nella condivisione del territorio con altri. Questo modo di  vivere è rimasto un bisogno tuttora ancorato nel profondo del nostro cervello. Inoltre il presidio sul territorio si è rafforzato quasi sempre con la formazione di identità linguistiche e culturali. Tutto ciò non può essere scalzato da processi che si sovrappongono alla dimensione locale e che arrivano ad avere un’estensione che oggi va oltre la nazione e oltre il singolo continente. Ma d’altra parte sono anche processi inevitabili e positivi per l’interdipendenza che creano tra i popoli e per le opportunità di scambi di ogni tipo. Ormai viviamo tutti in un condominio. Dunque: dimensione locale e dimensione globale fanno parte dello stesso mondo in evoluzione e devono trovare il modo di conviverci. E l’Unione Europea è chiamata ad avere una sua politica in materia, oltre che ad avere un ruolo intermediario rispetto ad eventi come quello della Catalogna.

Ma forse anche noi altoatesini avremmo potuto giocare un ruolo con la nostra esperienza. Abbiamo un’Accademia che si chiama Europea e che studia i problemi delle minoranze. Abbiamo una rappresentanza a Bruxelles. Perché non mettere a disposizione degli spagnoli e dei catalani le nostre conoscenze e la nostra esperienza? Perché non cogliere in questo evento un’occasione per confermare un certo modello di autonomia, cioè un modello mediato di convivenza? Senza lasciare che la scena venga occupata da gruppi  scissionisti e da populisti schierati a priori con chi ha un qualunque motivo per andare in piazza?